“Che guaio ci ha portato qui?”

a cura di Vanessa Collerone e Eleonora Pizzocri, studentesse del Liceo Carlo Porta, Monza.

Intervista alla dottoressa Chiara Mariasole Carugati, Psicoterapeuta referente disturbi d’Ansia e dell’Umore.

A parlarci dei disturbi d’ansia e dell’umore è Chiara Marasole Carugati, psicologa specializzata in Psicoterapia Psicoanalitico Fenomenologica presso Istituto Aretusa di Padova, svolge attivitá come libero professionista a Monza presso il Centro Clinico di Psicologia e a Saronno, come referente del Gruppo DP&P, presso il Polo Saronnese di Psicologia (VA), si occupa di consulenza psicologica e di psicoterapia per adulti ed adolescenti.

Come si arriva a capire che un soggetto soffre di un disturbo invece che avere solo un comportamento considerato “normale”?

Nel campo della psicopatologia uno degli strumenti maggiormente utilizzati per identificare la presenza di un disturbo è il DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), attualmente alla sua V edizione. Questo manuale definisce I disturbi mentali in base a quadri sintomatologici, creati su basi statistiche. La diagnosi di un determinato disturbo viene fatta in base alla presenza continuativa di un numero minimo di sintomi (es. Almeno 3 su 5 elencati) per un periodo di tempo (es. Almeno 6 mesi).

Facendo un esempio: la fobia sociale presenta tratti in comune con la timidezza, ma non è ad essa sovrapponibile. Rappresenta una sorta di “timidezza patologica”, portata a livelli estremi, che può condizionare il funzionamento sociale (le relazioni, le attività scolastiche o lavorative), portare all’evitamento delle situazioni considerate pericolose (conoscere persone nuove, uscire a pranzo in un luogo pubblico, sostenere un’interrogazione o un colloquio di lavoro), condizionare il pensiero ed il comportamento di chi ne soffre.

Un approccio categoriale pone una linea di confine fra normalità e patologia, ma può essere riduttivo.

Più utile risulta essere un approccio di tipo dimensionale, che pone normalità e patologia lungo un continuum di intensità. Secondo questa visione determinate caratteristiche personali o comportamenti possono diventare patologici laddove diventino pervasivi nella vita della persona, creando rigidità, ripetitività ed impossibilità al cambiamento, perpetuando il ciclo di sofferenza stessa.

La fobia è conseguenza di esperienze negative oppure è casuale?

Le fobie sono paure immotivate, eccessive, marcate e persistenti per un determinato oggetto o situazione specifica. Sono una delle manifestazioni dei disturbi d’ansia che condizionano la possibilità di vivere liberamente la propria vita, portando chi ne soffre a mettere in atto comportamenti di evitamento delle situazioni e degli oggetti delle loro paure. Secondo una lettura psicoanalitica l’oggetto della fobia è la rappresentazione di un’angoscia sottostante non consapevole, la manifestazione di una paura più profonda che “prende a prestito” un oggetto od una situazione esterna. Un disturbo fobico può manifestarsi indipendentemente da un’esperienza negativa con l’oggetto o la situazione in questione (es. La cinofobia – paura dei cani – può manifestarsi indipendentemente dal fatto che si sia stati aggrediti o spaventati nella realtà da un cane). Può accadere che un evento spiacevole con un oggetto crei una connessione fra lo stato di allerta provato e l’angoscia sottostante, creando un “precedente” che si cristallizza nell’esperienza della persona, facendole in seguito temere di riprovare la stessa sensazione in presenza di quello stesso oggetto. In sintesi, è possibile che ci sia un’esperienza negativa pregressa ma questa non rappresenta “conditio sine qua non” al manifestarsi del disturbo.

Nel caso della depressione endogena ed egodistonica, come si arriva alla causa scatenante?

In generale nei disturbi psichici negli ultimi anni ci si è spostati da modelli unifattoriali (ovvero: causa genetica, biologica o ambientale) ad un modello multifattoriale bio-psico-sociale che definisce la manifestazione del disturbo come un complesso incrocio di fattori predisponenti (una vulnerabilità soggettiva) e precipitanti (come fattori ambientali, eventi di vita traumatici).

Rispetto ad una depressione di tipo reattivo, ovvero conseguente ad un fatto di vita quale può essere un lutto, un crollo finanziario, la fine di una relazione, nella depressione endogena non è possibile risalire ad un evento unico scatenante e concomitante con il manifestarsi dei sintomi.

Importante è inquadrare la sintomatologia nella storia di vita della persona, risalendo alle basi della strutturazione della personalità dell’individuo, conoscendo l’ambiente familiare nel quale è cresciuto, la presenza di familiari con la stessa patologia o di traumi precoci che possono aver influenzato la modalità con la quale la persona legge gli eventi di vita ed impara a rispondervi.

Significativi sono sicuramente I primi anni di vita, così come momenti fondamentali di passaggio quali la preadolescenza e l’adolescenza.

Nel caso di un trauma, quali meccanismi di difesa entrano in gioco? E come e quando si arriva a una amnesia dissociativa?

Il trauma è un tema di estrema attualità sia in psicologia che nel campo delle neuroscienze.

Le risposte difensive al trauma possono essere pervasive e compromettere la normale regolazione sociale di un individuo. Il trauma lascia una traccia fisiologica “non pensata” nel nostro sistema nervoso, che modifica la capacità di valutare il livello di pericolosità dell’ambiente. In seguito al trauma il livello di attivazione e di risposta al pericolo si abbassa, facendoci percepire come pericolose situazioni in realtà sicure.

Le risposte al pericolo nell’uomo hanno aspetti di somiglianza con il mondo animale, perchè appartengono ad un funzionamento molto basilare di sopravvivenza.

Fra le risposte alla situazione traumatica troviamo la modalità “attacco/fuga” (rispondere ad una minaccia o con un attacco o allontanandosi dalla situazione), il blocco (“freezing”), la dissociazione, fra cui anche l’amnesia dissociativa. In questo caso viene dissociato il ricordo dell’evento traumatico, mentre sono ancora presenti le reazioni fisiologiche, difensive e relazionali conseguenti al trauma. Al contrario può essere presente il ricordo ma quello che viene dissociato è l’aspetto emotivo ad esso collegato: avremo quindi una persona che racconta di un evento di vita traumatico con distacco emotivo, come se non fosse accaduto a lui ma a qualcun’altro.

Più è profondo il trauma, maggiore sarà l’aspetto dissociativo.

In cosa consiste il disturbo distimico? Cosa lo differenzia dalla depressione maggiore?

La depressione maggiore è endogena, ha a che vedere spesso con fattori biologici, è un disturbo dell’umore con manifestazioni che nelle forme acute richiamano la dimensione psicotica (la presenza in alcuni casi di deliri). E’ la forma più grave, assieme al disturbo bipolare, che alterna fasi depressive con fasi dette maniacali, di iperattivazione.

Il disturbo distimico si distingue dalla depressione maggiore in termini di intensità, cronicità e persistenza dei sintomi.

È meno grave della depressione maggiore, ma non va sottovalutata.

Per quanto riguarda la tecnica terapeutica,come è strutturato un colloquio?

I colloqui hanno diverse finalità. Il primo colloquio è teso alla comprensione della “domanda” della persona che si presenta a consulenza, il disagio che sta vivendo, le aspettative rispetto al percorso psicologico (ad esempio la risoluzione del sintomo, piuttosto che la comprensione di ciò che sta accadendo nella sua vita). Sono informazioni preziose per capire sia cosa ne pensa la persona del proprio disturbo, quanta consapevolezza ha, quanta vergogna o rifiuto prova, e cosa chiede al terapeuta. Ad esempio può capitare che una persona venga in colloquio con l’aspettativa di ricevere la “soluzione magica” al proprio problema, chiedendo implicitamente allo psicologo di “fare qualcosa che gli faccia passare il disturbo”. Chiarire la natura del disagio e le aspettative realistiche è importante per impostare un buon lavoro.

I colloqui successivi, detti di consultazione, servono ad inquadrare l’aspetto sintomatologico nella storia di vita della persona, si ricostruisce sia la storia clinica (da quando è presente il disturbo, le variazioni nel tempo, il ricorso a altri percosi o farmaci) sia la storia personale

Il fine della consultazione è arrivare ad una diagnosi sintomatologica e funzionale, ovvero come quella data persona fronteggia il proprio disagio, gli aspetti di fragilità ma anche le potenzialità; al termine della consultazione viene formulata una proposta terapeutica, che può includere sia colloqui psicologici che, se necessario, una terapia farmacologica avvalendosi della collaborazione di uno psichiatra.

Durante la consultazione ci si può avvalere anche di test che offrano ulteriori informazioni da integrare con gli aspetti emersi nei colloqui, test che possono essere di livello (come la WAIS, scale sintomatologiche) o di personalità (come il test di Rorschach, MMPI).

La proposta psicoterapica può essere a breve termine, focalizzata su un singolo aspetto, o a lungo termine (ovvero si stabilisce l’inizio ma non è possibile definire a priori la conclusione) laddove la sofferenza abbia ripercussioni su diversi ambiti di vita, sia maggiormente pervasiva, o cronicizzata. Un colloquio psicoterapico punta all’emergere di materiale spontaneno da parte del paziente, che viene rielaborato in sede di seduta dando un nuovo significato, più ampio, a elementi che possono apparire sconnessi fra loro, poco comprensibili e che possono generare confusione e paura.

In una terapia di tipo supportivo il terapeuta ha un ruolo maggiormente attivo, proponendo strategie di gestione delle situazioni problematiche differenti da quelle utilizzate dal paziente, riflessioni per osservare la stessa tematica da un’altro punto di vista, “supporta” il paziente nel rafforzamento di difese adattive per fronteggiare il malessere.

Attraverso un percorso terapeutico, come una paura o un’ansia possono tramutarsi in tranquillità e stabilità emotiva?

Facendo l’esempio degli attacchi di panico, la persona che ne soffre spesso arriva al primo colloquio con uno stato di allarme molto elevato, dovuto alla paura che I sintomi scatenano, sintomi che in questo disturbo coinvolgono molto anche il corpo (tachicardia, difficoltà a respirare, tremori, debolezza, dolori al petto, disturbi gastrointestinali). Spesso accedono al nostro servizio inviati dal medico di base, ma ancora scettici del fatto che il loro problema possa essere di natura psicologica, ipotesi non accettata per impostazione personale e culturale (“i problemi psicologici non esistono”, “è questione di buona volontà”, “è un problema che puoi risolvere da solo”).

Un primo aspetto rassicurante per un paziente è fornire informazioni su quello che gli sta accadendo, anche in termini di diffusione del disturbo (“non sono il solo”, “allora forse non sono matto”), in che cosa consiste un attacco di panico, che durata ha, come si manifesta, cosa non è (“non sto per morire di infarto”, “non sto per svenire”). Conoscere il problema è un primo mezzo per calmare l’angoscia e ridimensionarla.

Altro passaggio importante è lavorare sull’accettazione del problema, investendo le energie nella direzione di comprendere l’origine, il significato personale, focalizzando l’attenzione su quello che è possibile fare inizialmente per gestire il problema, mentre si lavora sul suo miglioramento. Molte persone fanno fatica a tollerare di avere una fragilità, e concentrano I propri pensieri su un’unica affermazione: “non voglio che mi capiti mai più”.

Il lavoro in terapia è iniziare a pensare all’attacco di panico come ad una espressione di un sovraccarico che stiamo sottovalutando, o non considerando in modo opportuno, costringendo il corpo a lanciare un allarme chiaro che intimi uno stop. Imparare a riconoscere I livelli di stress, di pressione ai quali siamo sottoposti, aiuta ad intervenire prima per ridurli, fornendo così un fattore protettivo al ripetersi del disturbo.

Capire permette di agire in modo diverso, comprendere che l’attacco di panico è la manifestazione di una parte interna e non un guaio capitato dall’esterno, ci permette di ripensarci come capaci di intervenire sul problema, e non come impotenti di fronte a qualcosa di incomprensibile e spaventoso.

Se per esempio dovesse capitare che il paziente avesse un attico di panico in seduta, come si deve reagire?

Mi è capitato di avere pazienti che avessero un attacco durante la seduta, e questo può rappresentare una grande possibilità. Mantenendo un atteggiamento calmo, rassicurante, si può descrivere al paziente quello che gli sta accadendo riducendo il senso di catastrofe, lo si può aiutare a focalizzarsi in quel preciso momento sulle possibilità che ha di tranquillizzarsi, di riprendere il timone della sua emotività, ad esempio facendolo concentrare sulla respirazione, guidandolo nella sua regolarizzazione, così come del battito cardiaco.

Spesso le persone che soffrono di attacchi di panico si spaventano delle reazioni dell’altro al suo malessere: panico provoca panico. Se all’attacco di panico rispondiamo con calma, riportando a quello che effettivamente sta succedendo e non a quello che si teme, la paura diminuisce ed aumenta un sentimento positivo di poter contenere il malessere e non lasciarsi travolgere.

È sempre riuscita a indirizzare il paziente sulla via della guarigione riscontrando esiti positivi?

Non sempre, non siamo infallibili. La terapia è un lavoro che viene fatto con il paziente, è un gioco di squadra, nel quale entrambi, paziente e terapeuta, mettono la propria parte. Ci sono terapia che vengono interrotte, spesso quando si incappa in tematiche più difficili da affrontare. Chiedo sempre a chi intraprende un percorso con me, nel caso di una volontà di interruzione prematura, di aver un incontro conclusivo nel quale poter restituire quanto fatto fino a quel punto ma anche per identificare cosa non ha funzionato nel trattamento per portare a questa decisione e per ridefinire, se c’è la volontà, una nuova linea terapeutica.

La guarigione, poi, è un tema interessante. La guarigione non è solo risoluzione sintomatologica ma anche accettazione di alcuni aspetti della nostra personalità che rimarranno, che non possiamo eliminare, ma che possiamo imparare a gestire meglio diminuendo la sofferenza.

Se dovessi rendermi conto, per competenze e conoscenze, che non sono in grado di offrire un buon intervento ad un determinato paziente, preferisco chiarire precocemente questi aspetti con la persona e indirizzarla verso un professionista più adatto.

In caso contrario come ci si comporta?

Come dicevo condivido con la persona il mio pensiero e se vuole la aiuto ad identificare un professionista più idoneo. Credo sia terapeutico anche questo, ammettere che siamo persone, come tutti, con dei limiti e che prendersi cura sia anche pensare a cosa è meglio per la persona che richiede aiuto.

Come uno psicologo riesce a mantenere un atteggiamento di distacco nei confronti del paziente?

E’ lavoro per certi versi faticoso e che richiede, dal mio punto di vista, la necessità di essere supportati per fare un buon lavoro. Di particolare importanza sono stati – e sono – per me il percorso formativo, l’analisi personale e le supervisioni.

Il percorso formativo non è mai finito, richiede un costante aggiornamento per ampliare le conoscenze teoriche e le tecniche di intervento. L’analisi personale aiuta il terapeuta a conoscere le proprie dinamiche e distinguere quelli che sono propri vissuti da quelli del paziente, non confondendoli e permettendo di sintonizzarsi in maniera più trasparente su quello che sperimenta il paziente. La supervisione, il parlare con professionisti più esperti di difficoltà che si possono incontrare in una terapia, aiuta ad avere una visione diversa della situazione problematica, avvalendosi dell’esperienza maggiore di chi ci precede.

Il distacco non è non sentire l’emotività che circola in questa stanza, empatizzare significa sentire e comprendere I vissuti dell’altro senza confonderli coi propri, senza viverli come se stessero accadendo a noi. L’empatia sta nella capacità di entrare nel vissuto dell’altro, di parteciparvi e comprenderlo, ma per farlo devo staccarmi dal mio, quindi la distanza è la capacità di non fondermi o confondermi con il vissuto dell’altro, posso compartecipare, ma non viverlo come se fosse mio. Come diceva un grande psicopatologo, Gaetano Benedetti, che ha dedicato la sua vita alla cura delle psicosi, stare in relazione è “come entrare in un pozzo profondo tenendosi ben agganciati al bordo”, il bordo è la nostra capacità di osservare quello che stiamo vivendo mentre lo stiamo vivendo, senza confonderci con il vissuto.

Non sempre è un passaggio facile.

Come il paziente si gestisce durante il tempo trascorso da solo,tra una seduta e l’altra ?

Dipende da paziente a paziente, dalla gravità della sofferenza, dalla tolleranza dell’attesa, della solitudine o della frustrazione, dal livello (acuzie) di intensità del disturbo in un dato momento.

Posso proporre per pazienti diversi, o per lo stesso paziente in momenti diversi, un aumento delle sedute settimanali, concordare la possibilità di tenere contatti telefonici fra una seduta e l’altra o la. possibilità di scrivermi via mail per contenere il malessere del momento.

In base alla situazione posso pensare, in accordo con il paziente, di coinvolgere la rete familiare, consapevole di avere un limite, di non poter essere presente sempre per la persona che ho in terapia. Posso pensare di creare una rete di intervento che preveda anche altre figure professionali, come lo psichiatra

Che ruolo ricoprono le famiglie nel disturbo e nella terapia del paziente coinvolto?

Le famiglie hanno un ruolo importante ma non determinante. Si stanno superando le teorie che vedono nella famiglia la causa d’origine del disturbo. Importante è capire, però, quali dinamiche all’interno della famiglia possono aggravare il malessere della persona o al contrario essere protettive e offrire mezzi per fronteggiare meglio la sofferenza.La famiglia deve essere coinvolta quando necessario, nel caso ad esempio di persone minorenni o di pazienti con gravi compromissioni sul piano comportamentale e di autonomia.

Nel caso di un paziente maggiorenne, la famiglia può essere coinvolta concordando con il paziente stesso come può essere utile un’apertura, cosa ha bisogno di essere condiviso, magari fissando degli incontri periodici di confronto.

Come una sua esperienza passata legata all’area di cui si occupa, quindi ansia e depressione, può giovare o ostacolare la terapia con un suo paziente?

In gioventu’ mi è capitato di avere problemi d’ansia, come del resto accade a molte persone.

A parer mio se il disturbo passato è stato superato ed elaborato può essere una grande arma a disposizione che puó giovare nel percorso del paziente perché il paziente sente che non gli stai dicendo una cosa letta su un libro, ma che anche tu hai vissuto un’esperienza simile.

Nel caso in cui non fosse stato elaborato può ostacolare il lavoro. Come diceva un mio maestro “non si può portare un paziente più in là di dove noi stessi siamo arrivati”.

Siamo fatti di carne e ossa e spesso ce lo si dimentica.

Ricordo ancora il primo giorno nella scuola specialistica e quando il mio professore ci disse: “Che guaio della vita vi ha portati qui?”. Tutti probabilmente nella vita abbiamo affrontato un guaio che ci ha portato a scegliere psicologia e probabilmente anche voi,no? Se stiamo attenti, se siamo ricettivi verso le nostre esperienze, troveremo che di fondo mantengono una matrice comune ad esperienze anche molto lontane dalla norma, come quelle psicotiche. Non credo sia utile avere una visione dicotomica “tu sei matto, io no”, quanto rintracciare quali elementi ci siano in comune per stabilire un ponte di significato condiviso. Siamo uno strumento, le nostre emozioni ed esperienze lo sono, se vengono accordate al meglio.

Da professionista quale è, risulta possibile conciliare il lavoro con un’eventuale famiglia?

Sì, credo sia possibile, perlomeno nella mia esperienza lo è stato. Non sempre è semplice, il percorso può essere lungo e non sempre immediatamente gratificante, soprattutto economicamente. Credo che la mia risorsa sia stata adattarmi alle esperienze, prenderne il buono, cercando nel tempo di conciliare al meglio orari ed energie.