Il disturbo mentale grave di un proprio caro è un problema che perturba profondamente chi lo vive, ma  si riflette anche sull’intera famiglia, sollecitandone gli equilibri interni e le emotività dei singoli: questa problematica risuona e si amplifica nella loro vita affettiva, di relazione e di comunicazione.

Da un punto di vista affettivo vengono elicitati nei singoli membri dei sentimenti di preoccupazione e paura, senso di colpa ed inadeguatezza nel dover affrontare le crisi del proprio congiunto, a volte anche possibili sintomi ansiosi,  depressivi e/o psicosomatici:  i genitori di questi pazienti infatti sono costretti ad elaborare un dolore profondo collegato alla rielaborazione dell’immagine ideale del proprio figlio, tanto desiderato ed investito di aspettative, ma così diverso nella realtà quotidiana attuale.

A livello relazionale invece il nucleo familiare tende a isolarsi socialmente, per vergogna e per paura di lasciare sola la persona affetta da grave patologia: si evitano o riducono notevolmente le attività del proprio tempo libero, ci si stringe a fianco a chi soffre con il rischio di esacerbare, in quanto non si vive più le proprie libertà e i propri interessi, degli atteggiamenti disfunzionali che non aiutano il paziente.

Spesso purtroppo gli effetti sociali sono ancora più gravi perché la famiglia vive lo stigma della malattia psichiatrica, ossia la discriminazione fondata sul pregiudizio alla cui base c’è il misconoscimento del dolore del malato e delle famiglie coinvolte e l’idea, erronea ma molto diffusa, che non esistano cure efficaci.

Proprio la mancanza di informazioni adeguate sulla patologia, sulle modalità più efficaci di aiuto e sui servizi preposti alla cura di tali disturbi mentali rende le persone vicine a chi soffre non solo isolate, ma anche disorientate ed incapaci di attivare nuove risorse per far fronte alla problematica attuale.

In questa grande confusione purtroppo si amplificano spesso i conflitti familiari, si perde la capacità di comunicare efficacemente e mantenere un proprio ruolo, fondendosi l’uno con l’altro in un clima di fredda ma intensa dipendenza  (“famiglia invischiate” per Minuchin; “Io-massa indifferenziato” di Bowen).

Da un punto di vista comunicativo i disturbi della comunicazione, verbale e non, tra i membri di questo tipo di famiglie sono spesso caratteristici: la mancanza di chiarezza, le continue contraddizioni, le distorsioni di messaggi, la ridondanza, le difese strenue o fughe attraverso risposte incoerenti alimentano continuamente le tensioni e quindi la confusione. Non di rado è diffusa la sensazione che il malato abbia perso la capacità di comprendere e di esprimersi, ma senza rimandarglielo, per evitare agiti e altra sofferenza, si strutturano conversazioni mistificate e confusive.

In questa situazione, in cui saltano i nessi comunicativi e si è in balia del non senso, si rischia di alimentare il malessere del singolo che si riverbera su tutto il nucleo familiare.

Se quindi il grave malessere psichico del singolo sollecita enormemente la famiglia, vi sono numerose ricerche che dimostrano come l’ambiente familiare  in cui il paziente vive influenzi fortemente il percorso di guarigione: all’inizio degli anni ’60 in particolare si studiò un nuovo concetto, noto come l’Emotività Espressa, ossia quella serie di atteggiamenti (ipercoinvolgimento emotivo – eccessivo coinvolgimento dei familiari verso la malattia del congiunto -,  critica – commenti sfavorevoli verso il soggetto – e ostilità – rifiuto o sentimento negativo rivolto contro la persona) che i familiari manifestano verso il malato.

I pazienti che vivono in famiglie con un’alta emotività espressa , ossia in un ambiente continuamente giudicante, critico, ma anche enormemente coinvolto da un punto di vista emotivo, vanno incontro a maggior possibilità di recidive e di ricoveri  rispetto a chi vive in ambienti più accoglienti e rinforzanti (Leff e Vaughn, 1985).

È importante pertanto aiutare la famiglia a modificare l’omeostasi interna, modulando e contenendo l’alta emotività espressa, per attivare nuove potenzialità individuali che consentano di uscire dall’angoscia confusiva che la psicopatologia grave ha favorito, ma anche della quale ne è l’agente originario.

Uno degli interventi psicoterapeutici più interessanti, utili e proficui per il supporto ai familiari è il lavoro in gruppo attraverso il modello psicoeducativo.

Esso si propone di:

  1. aumentare la stabilità dell’ambiente familiare, riducendo l’ansia e potenziando la fiducia in se stessi, attraverso un rispecchiamento delle esperienze ed emotività individuali,
  2. accrescere le conoscenze in merito alla malattia e la capacità di reagire in maniera costruttiva a situazioni difficili,
  3. contenere i livelli di emotività espressa, riducendo l’intensità della interazione fra il paz e la famiglia,
  4. ridurre la percentuale di recidive e di crisi acute,
  5. dare informazioni sul disturbo, sulle leggi e gli interventi attivabili,
  6. chiarire il rapporto tra famiglie e Servizi, migliorandone la collaborazione.

 

Per chiarimenti, informazioni e supporto ai familiari di pazienti con psicosi, rivolgersi al Centro Clinico di Psicologia di Monza chiamando il numero 039.9416276 o mandando una mail a info@centropsicologiamonza.it.

Dott.ssa C. Ricci Mingani
Referente Gruppo DP&P

 

Riferimenti bibliografici

“Intervento psicoeducativo integrato in psichiatria” di Falloon et al. – Ed. Erickson
“Terapie familiari e psicoeducazione” di Bertrando, Cazzullo e Clerici – Franco Angeli Ed.