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Molto è stato scritto in tema di autolesionismo e molto si potrebbe dire. In queste poche righe non è possibile farlo e l’intento allora è di sottolineare la possibilità e la necessità di guardare e occuparsi di questo diffuso e doloroso fenomeno. È possibile occuparsene ed è necessario farlo.
Con il termine autolesionismo ci si riferisce ad un vasto ed eterogeneo ambito di comportamenti accomunati dal fatto che la persona fa male a se stessa. Si pensa immediatamente al tagliarsi, ma in realtà esiste una moltitudine di condotte tra cui il ferirsi con i più svariati strumenti, il bruciare i propri tessuti con oggetti e sostanze, l’ingerirne di tossiche. Talvolta la persona può anche strapparsi o sfregare parti del corpo le une contro le altre o contro superfici abrasive fino a produrre lesioni di varia gravità. Ferite più superficiali o molto invasive che impongono l’intervento medico. In talune situazioni queste condotte possono arrivare a mettere a rischio la vita della persona per la loro entità o frequenza.
L’esordio dell’autolesionismo può avvenire in fasi differenti della vita
Può e spesso accade che compaia in adolescenza ma può anche presentarsi anche in fasi precedenti o successive.
Nel tempo tali condotte possono restare invariate o modificarsi per tipologia, frequenza e nocività. Talvolta ad una condotta se ne affianca una nuova che la sostituisce o la aggrava. In alcuni casi si nota una oscillazione nel ricorso a tali condotte associata a particolari condizioni emotive (in situazioni di ansia, stress, bisogno, ecc.). In altri casi ancora si assiste ad una escalation progressiva e la condotta diventa sempre più frequente e/o pericolosa.
È drammatico ciò che la persona fa a se stessa ed è drammatico ciò che subisce infliggendosi tali ferite.
È altresì drammatico per l’ambiente circostante spettatore investito ed impotente. Familiari, amici, colleghi e anche dottori si trovano in un uguale tunnel di angoscia, impotenza o rabbia.
È altresì drammatica la non sempre conosciuta diffusione di tali condotte che sono meno rare di quanto si possa pensare. I vari studi scientifici riportano percentuali differenti ma ciò che è ormai risaputo è che non si tratta di situazioni rare né circoscritte a nicchie di persone, disturbi psichici o ceti sociali.
Va anche ricordato che l’autolesionismo rientra nella più vasta categoria di condotte di attacco al Sé corporeo
Raggruppamento di cui fanno parte anche i disturbi del comportamento alimentare, i comportamenti che implicano l’esposizione a rischi, i traumi ripetuti, ecc.
Fenomeni differenti ma accomunati dalla difficoltà per la persona di gestire ed esprimere in altro modo ciò che sente, prova e pensa. Sofferenza, bisogni, desideri ed emozioni soverchiano le capacità mentali ed emotive della persona che ne viene quindi sopraffatta. L’impossibilità di trovare alternative più funzionali fa sí che la persona ricorra con urgenza a tali condotte che diventano quindi anche un rifugio ed un sollievo.
La persona si trova incastrata in un vortice di emozioni e bisogni e l’autolesionismo è l’espressione del tilt come pure della soluzione urgentemente improvvisata. È una gabbia e al contempo una protezione. Fa vergognare e spinge a nascondersi, ma talvolta è anche il trionfo su ciò che è sentito incontrollabile. In un caos di vissuti diventa un momento di quiete e solitudine. Spaventa e mortifica, ma consente anche di sfogare insopportabili dolore, impotenza, rabbia, frustrazione, paura, inadeguatezza o tristezza.
Di fronte a tutto ciò va detto che la cura è possibile
La cura dell’autolesionismo richiede sempre l’aiuto di professionisti e talvolta l’intervento di dottori con specializzazioni differenti (psicoterapeuta, psichiatra, medico, ecc.).
E’ una cura che passa attraverso la possibilità per la persona di riguardare a sé e alla propria storia. A ciò che vive e a ciò che non riesce a vivere. È un progressivo ripensarsi e un imparare o tornare a volersi bene. È un lavoro che permette di appropriarsi del senso di quei comportamenti apparentemente incomprensibili e incontrollabili.
È anche una cura resa possibile dal fatto che mentre si lavora su tutto ciò, si costruiscono o ripristinano quelle capacità emotive e mentali che prima non c’erano o erano in stallo.
La persona necessita quindi di aiuto e può beneficiarne, ma non per questo riesce a chiederlo o, talvolta, ad accettarlo. Spesso accade infatti che si nasconda pur sperando di essere vista. Che si opponga pur sapendo di aver bisogno d’aiuto.
La paralisi in cui si trova il paziente spaventa, disorienta, esaspera o fa perdere la speranza anche chi è accanto. Spesso si sente dire che nessuno ha visto… e chi ha visto non ha chiesto o detto nulla. Non c’è da stupirsi considerando quanto sia difficile vedere e parlare di tutto ciò.
Ecco però perché lo sguardo può e deve essere dedicato a queste sofferenze. Sguardo e parole devono posarsi su ciò che accade. Su ciò che si nota ma si vorrebbe non aver visto. È necessario uno sguardo che diventi parole e domande. Che non lasci sola la persona e la sua famiglia. Che interroghi chi soffre e i dottori. Che accompagni progressivamente fuori dal buio e dalla solitudine verso una nuova modalità di vivere sé, le relazioni e la vita.
Il consulto di uno psicoterapeuta è la via per avviare una fase di comprensione di ciò che accade. Per comprendere i significati di ciò che sembra non averne. E poi per poter tollerare e superare ciò che a tutti sembrava innominabile e incurabile.
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*Marco Caltanissetta, Psicologo, Psicoterapeuta